“Pulex” di Guido Donatone

Pulex
di Guido Donatone


Mi chiamo Pulex. Sono piccina, molto piccina. Una volta per vedermi in uno specchio ho dovuto fare un salto piuttosto pericoloso. Troppo in alto per me, che pure salto bene, a fianco del letto del mio uomo. Vivo di solito nel cespuglio dell’inguine di un uomo che non ho nemmeno scelto. Lui mi ospita senza saperlo e cerco di dargli nessun fastidio. Succhio il suo dolce sangue solo in caso di estrema necessità: rischierei di beccarmi un’unghiata feroce. Preferisco nutrirmi altrove. Glielo devo in cambio del gradevole caldo riposante rifugio che mi offre. Devo guardarmi dal girovagare specie sulla sua schiena: ha comprato nel bazar di Istanbul una lunga maledetta mano grattante che gli arreca piacere, ma a me mi fotte. Non ci tengo affatto a farmi vedere. Quella volta del salto alto rimasi delusa –  meno male,  fu fuggevole – del mio aspetto. Sono fatta così. Inutile perdere  tempo a biasimarmi.

Sono di natura femminile, ma non capricciosa come le donne. Mi accontento. Sono accomodante  se bene accomodata. Tornando al mio uomo sono alquanto soddisfatta: è  giovane e di gentile aspetto, l’odore del suo corpo è gradevole. Una volta mi è frullato nella testa di saltare dall’inguine al più grato tepore dei testicoli. Mal me ne incolse. Lui chiama tutti coglioni, ma i suoi li tiene in grande conto. Li gratta  sovente, poi ho scoperto che non ce l’aveva con me: incontrava persone sgradevoli. Sono tornata , come vuole il proverbio, alla vecchia via. Lui sorride quando si guarda nello specchio, e lo fa spesso, ma per mirarsi il mio uomo non ha  bisogno di saltare. Salta solo sulla motocicletta.  

Però devo essere vigile, ricorrere all’astuzia, pronta a saltar via  quando gli punge vaghezza di farsi un’altra doccia: ha preso appuntamento con la ragazza. Guai a capitare in mezzo all’acqua e sapone: è inquinato avvelenato. Peggio ancora quando mette nel suo, nel mio cespuglio, il deodorante. Lo detesto. Devo cambiare alloggio, magari nei capelli: se sono profumati senza quello schifo di brillantina azzeccosa. Meno male che anche la ragazza la schifa.

Del mio uomo insomma non posso lamentarmi. Mi tiene calda dentro i pantaloni. Dovete sapere che mio acerrimo nemico è il freddo. Quando s’avvicina l’inverno è la fine. Non reggo la bassa temperatura, e se lui non si riguarda, non infila dei bei mutandoni di lana inizio a rabbrividire; specialmente se va in motocicletta: bella a vedersi ma quando corre s’impenna vola, il vento gelido, come un killer, s’infila tra le sue gambe, mi mette a repentaglio, mi fa soffrire. In genere però la corsa è breve: la ragazza abita a pochi chilometri. In casa di lei si ritorna a un bel calduccio. Specialmente quando ci stendiamo sulla pelle di tigre innanzi al camino acceso. Iniziamo a stringerci, rotolarci: posso  farmi male in questi strofinamenti languidi e burrascosi, devo saltare sulla tigre che a guardarla in faccia ancora fa  paura. Allora salto nel soffice pube della fanciulla. Ma qui non si sta quieti, quello sta sempre a frugare. Qualche volta, incurante del pericolo, mi sono arrisicata a infilarmi lesta anch’io, dolcemente, prima del mio uomo, che lo fa con violenza, nel profondo della vagina: non so se per voglia di partecipazione, per non abbandonarlo nel massimo del calore,  per pura gelosia. Dentro,  un terremoto intermittente, alta temperatura. Rischio di morire bruciata. Poi ancora una volta via, assieme a lui debellato ma felice.

Stasera voglio riprovarci. Il desiderio del fuoco del camino, dell’adorabile seguito periglioso mi rende ardita, baldanzosa.  Ma i preliminari sono lunghi, le carezze interminabili. Lei ha detto: “Mi fai diventare lasciva”. Non so che significa, vedo il  volto della fanciulla avvampare, gli occhi perduti guardare le lingue di fuoco, il capo riverso, i capelli sciolti. Sono pronta a saltare, conquistare la postazione prima che lui se ne impossessi, ne diventi l’assoluto padrone. Ci sono. Ora sto bene, mi crogiolo, mi cullo, il denso vapore induce il sonno.

Ahi! Quanto ho dormito?  Sono nel gelo, com’è possibile? Tenero grande tepore raccolto nel corpo esile mi stai abbandonando. Dove cavolo mi trovo? Questo figlio di puttana è già tornato in motocicletta. Non sono nei suoi pantaloni. Sono annidata, tremante nei suoi baffi ancora intrepidi sazi orgogliosi. I suoi occhi brillano. Mi sento morire. Mi può salvare solo il suo alito caldo fumante. Attendo, buon Dio delle pulci, un poderoso bollente sbadiglio.

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